Guardiamoci attorno. Due
sono le percezioni che abbiamo rispetto alla pandemia. Una è la
sensazione che essa
sia stata un grande acceleratore di processi, uno fra tutti il
bisogno di fare comunità. Costretti
a trascorrere la maggior parte del tempo a casa, abbiamo usato i
nostri quartieri per ogni necessità: dalla passeggiata con la
“complicità” del cane fino
alla
spesa nei
negozi di prossimità, trasformando
anche i
quartieri “dormitorio”, che
hanno
ritrovato
una funzione ed una funzionalità a misura d’uomo.
L’altra
percezione è quella di un vuoto che, considerato in concreto, ha
risvegliato il predominio della paura di non riuscire a tornare alla
normalità individuale del
presente e ad un risveglio collettivo del futuro.
Guardiamoci
attorno. Nonostante gli sforzi di ciascuno e di (quasi) tutti, i
nostri quartieri sono spenti. Le saracinesche di
ormai troppi esercizi commerciali
sono abbassate per sempre, con
tutto quello che ne consegue in termini di politiche del lavoro ed
economiche: non
solo i grandi numeri, bensì
le famiglie, cioè le persone.
Manca poco, pochissimo. Fra breve finirà la stagione dei sostegni e ci ritroveremo in uno tsunami sociale di enormi dimensioni. Terminerà il blocco dei licenziamenti, il blocco degli sfratti e molti saranno costretti a chiedere ai figli di smettere di studiare, attivando così i grandi numeri della dispersione scolastica.
Cosa
facciamo oggi per questo futuro prossimo? Cosa stiamo programmando di
fare?
Facciamo attenzione ai programmi elettorali.
Le politiche sociali saranno il riflettore politico primario e non possiamo trovarci impreparati.
Velocizzare i tempi di aiuto è l’importanza primaria: la povertà non conosce la misura del tempo.
Sburocratizzare le modalità di richiesta di aiuto è l’importanza
primaria: la povertà non conosce l’educazione servile dei
formalismi.
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